Franco Pedrina

Marco Valsecchi

Dico grazie a Pier Paolo Ruggerini che mi ha mostrato per la prima volta i quadri di Franco Pedrina. E’ una giovane del Veneto orientale, esce da una famiglia contadina, a Padova si è iscritto ad Architettura ma ha smesso l’università per dipingere.
Mi era sconosciuto, anche se a Roma ha già esposto un paio di volte. L’avanguardia corre e nella sua corsa finisce anche per superarsi con ritmo frenetico. E’ il suo prezzo. Pedrina si estrania da queste frenesie pur conoscendole a fondo; anzi forse per questo.
Ma penso che non sia tanto una posizione polemica quanto il desiderio irrefrenabile di dare espressione a un evento emotivo che coinvolge memoria, sentimento del tempo e presenza di una realtà che ha cessato di essere una contrapposizione oggettiva per diventare ormai una partecipazione, un possesso, meglio una identità con la radice più profonda della sua esistenza, e quindi del suo bisogno di comunicare in pittura.
Se si guarda ai motivi stilistici dei suoi quadri, si osserva, chiara, un’impronta, anzi un coordinamento di impulsi fantastici e di pagina pittorica che deriva da Klee: un organismo di segni e di colori che tendono a un autonomo dettato di immagini, e tuttavia portano il colore e la tenera violenza di un moto interno all’immaginazione, dove si è stratificata la memoria e dalle sue remote distanze essa rimanda, se non proprio un predominio, certamente il suo impeto affettuoso; per cui la realtà, filtrata da questo spessore di emotività cangiante, assume un valore più magico che simbolico.
Ispezionando ancora tra i motivi culturali di questa pittura persino sapiente di finezze tecniche, si ritrova il senso che vorrei dire favoloso della pittura bizantina così come l’hanno tramandata i veneti: una tonalità calda e irradiante ma castigata nelle rutilante esteriori, lo scalarsi verticale degli intarsi cromatici legati da una risonanza di tono che si ripercuote da cima a fondo dentro gli impasti grevi eppure luminosi delle stesure di colore, e soprattutto la facoltà di rendere evidente la dimensione suggestiva di un sogno irripetibile. Solo che, su questo punto, mi chiedo se sia un fatto di “cultura” o non piuttosto un fatto di “natura”, una condizione naturale della sua fantasia, maturatasi anche per lunghe genealogie di generazioni venete oltre che per sensibilità dell’occhio al colore di quei campi di quelle case e di quei fiumi chiari che vanno verso l’Adriatico quasi portando una luce che sa di neve, di erba e di riflessi marini.
Ma è altrettanto singolare - voglio dire che Pedrina vi raggiunge una qualificazione che è strettamente sua - il modo in cui dentro queste pagine di pittura, tra l’astratto di un’idea pittorica e il concreto dei fenomeni di natura, riesce ad inserire i suoi motivi, cioè gli scarti improvvisi di un’eccitazione, lo squarcio di un movimento interiore - a volte moto di gioia, a volte ombra di inquietudine - che rompono un ordine troppo armonico, una cadenza troppo preziosa, per riportarli a un’evidenza più attuale. Un abbandono alla fantasia, ma non sino al punto che diventi smemoratezza o compiacimento. Ed è per questo che la pittura torna a legarsi alla vita, alle sue cadenze quotidiane, sicché dai quadri di Pedrina si ricava un diario che si trasfigura in un forte richiamo di poesia.

(Presentazione nel catalogo della mostra, Galleria Bergamini, Milano, maggio 1968)

 

 


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